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Non è mai stanca, si stringe le mani screpolate dal freddo. È cresciuta, in
macchina la sua fronte sembra più grande, ma le sue spalle sono più chiuse. Non si
appoggia mai completamente al sedile, resta sempre un po' scollata, sta cercando di
resistere. Guarda oltre i vetri dell'auto quel mondo che non ci ha difesi.
Aspettiamo come due convalescenti che il tempo passi, intanto il traffico scorre
e le giornate si accorciano. Le luci delle vetrine si riflettono nelle iridi di Italia che se
le lascia brillare negli occhi senza farci caso. Non l'ho più toccata, non si prende una
donna dopo un aborto, la si lascia stare. E poi ho terrore a immaginarla nuda, terrore
di ritrovarmi tra le mani il dolore che ha dentro, che stagna sotto i suoi panni umidi.
Prende troppo freddo al mercato, ha il naso rosso, screpolato. Tira fuori dalla tasca un
fazzoletto già zuppo, si soffia il naso. Le ho portato delle vitamine, lei mi ha
ringraziato, ma non sono sicuro che le prenda. Non è sano che il tempo trascorra così.
Non per noi. Non siamo amici, né lo saremo mai. Siamo stati amanti prima ancora di
conoscerci. Ci siamo scambiati la carne forsennatamente. E ora è così strana questa
cortesia che è scesa tra noi. La guardo e mi chiedo che c'entriamo io e lei con queste
acque morte. Non può finire così, senza un grido, senza niente. Se un demonio deve
caderci addosso, che ci bruci. Non possiamo finire in questa terra di mezzo.
Forse basterà cambiare scenario. La sua casa mi spaventa, quel copriletto color
tabacco, il camino nudo, il suo cane cieco e quella scimmia sul muro con il biberon
da neonato tra le zampe, come una beffa. Allora, un pomeriggio le chiedo se ha
voglia di stare un po' soli in un hotel.
«Per non stare sempre in mezzo al traffico» dico.
Così siamo dentro una stanza che non ci ha mai visti, una bella stanza al centro
della città con le tende pesanti damascate come le pareti. Non si è nemmeno guardata
intorno, ha buttato la borsa sul letto, ed è andata subito verso la finestra. Ha alzato
una mano per spostare un lembo della tenda. Le ho chiesto se aveva fame o se voleva
bere qualcosa, ha detto di no. Sono andato in bagno a lavarmi le mani e quando sono
tornato lei era ancora lì davanti alla tenda che guardava fuori. «È altissimo» ha detto,
quando ha sentito i miei passi che tornavano verso di lei, «che piano è?»
«Il nono.»
Aveva i capelli raccolti. Mi sono avvicinato e le ho baciato la nuca con le labbra
aperte e gli occhi chiusi. Da quanto tempo non la baciavo così? E già mi chiedevo
come avevo fatto a rinunciare a lei così a lungo. Il suo corpo tiepido era di nuovo
vicino a me in quella stanza vergine che ci avrebbe aiutati a dimenticare.
Ora sentirà l'umido delle mie labbra. All'inizio faticherà, ma poi tornerà a
essere mia come sempre. Non può rinunciare a me, me l'ha detto. Abbassa il braccio,
la tenda ricopre lo spiraglio della città di giorno. Così comincio a spogliarla, contro
quel tessuto pesante e fermo. Le tolgo la giacca, lei non lo ha fatto da sola, è una
brutta giacca smorta di laniccia che non pesa niente, pare mucillagine. Le sfioro i
seni, quei seni piccoli e appassiti che mi piacciono così tanto. Lei mi lascia fare:
«Tesoro» dice, «tesoro mio...» e mi stringe. La prendo per mano e la porto verso il
letto, voglio che stia comoda, che si riposi. Le tolgo le scarpe. Ha calze chiare, di
nylon duro, le strofino le gambe, i piedi, che sembrano quelli di un manichino. Lei si
sfila la gonna, la piega con cura e l'appoggia sulla sponda d'ottone del letto.
Ugualmente fa con la camicia. I suoi gesti sono lenti, sta cercando di prendere tempo,
di rimandare quel momento di intimità.
Io mi spoglio in fretta, butto la roba per terra. Approfitto di un suo sguardo
altrove, perché adesso mi vergogno. Ha scoperto il suo lato del letto, si stende e si tira
addosso le coperte. M'infilo accanto a lei, in quel letto ancora freddo. È distesa con le
mani lungo i fianchi, accavallo una gamba sulle sue, una gamba che scivola, perché
lei non si è tolta i collant.
«Non dobbiamo farlo per forza.»
«Lo so.»
Che amante gentile sono diventato di colpo. Come devo sembrare ridicolo! Non
aveva nessuna voglia di spogliarsi. Sarebbe rimasta volentieri accanto a quella tenda
appena schiusa a guardare il mondo dall'alto, a chiedersi se c'era un posto per lei da
qualche parte. Quando la prendo, ha un piccolo sussulto, poi più nulla, mi lascia
andare avanti e indietro nel silenzio più assoluto. Ho il volto immerso nei suoi
capelli, non ce la faccio a guardarla, ho paura di incontrare i suoi occhi impassibili.
Allora gemo forte, nella speranza che lei abbia pietà di me e mi risponda. Ma non
succede nulla. Non ci alziamo in volo, restiamo a terra. Ho il sangue negli occhi, i
suoi capelli in bocca. Non riesco ad abbandonarmi, vedo, ascolto tutto. Il piccolo
ronzio del frigo bar, l'aeratore che è rimasto acceso insieme alla luce in bagno. Il
rumore della mia carne che scivola nella sua, quello e davvero terribile. Italia non c'è,
la sua carne è vuota. Ora le peso dentro, come un amore morto. Quell'amplesso è il
nostro funerale. Sento la mia massa sudata che si appoggia al suo scheletro. Lei non
mi vuole più, non vuole più nulla. Il suo corpo è un passaggio che si sta chiudendo.
Allora capisco di aver perso tutto, Angela, perché tutto quello che voglio è lì esanime
tra le mie braccia. Sollevo il petto dal suo, le cerco il viso. I suoi occhi si muovono
sotto le lacrime come due pesci in un mare troppo stretto. Piange perché è l'unica
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